“SPAMMING”: SENZA PROVA DEL DANNO NON C’E’ REATO

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Nessun reato di “spamming” per il trattamento illecito di dati personali può esservi se manca la prova dell’effettivo pregiudizio in capo al destinatario.

Il preteso danno non potrà, infatti, essere ravvisato nel mero disagio di dovere, ogni volta, cancellare la posta cosidetta indesiderata.

Occorrerà, invece, che la pretesa vittima fornisca la prova concreta ed effettiva del danno (anche non di tipo meramente economico) patito.

 A titolo di esempio, tale nocumento potrà ravvisarsi laddove il soggetto “inviante” perseveri nononstante la intimazione a desistere da parte del “destinatario”.

La Cassazione, con la sentenza 41604/2019, interviene sul dibattuto tema in epigrafe e ciò tenuto conto della recente riforma di cui al Dlgs 101/2018.

Vengono individuati, quali elementi centrali dell’indagine giudiziale:  la volontà dell’agente di trarre un profitto o cagionare un danno alla vittima e l’effettività del nocumento da questa patito.

La fattispecie si riferisce ad un legale “inviante” una serie ripetuta di messaggi pubblicitari ad una associazione di igienisti dentali allo scopo di diffondere informazioni su di un corso di formazione tenuto dalla propria consorte.

L’associazione in parola si costituiva parte civile ed il professionista veniva ivi condannato in ambedue i gradi di giudizio.

La Suprema Corte con la sentenza in commento: ha ritenuto illegittimo il trattamento dei dati posto che vi è norma che ne subordina il consenso alla divulgazione del materiale pubblicitario via mail. Tuttavia, nel contempo, ha ravvisato la assenza di prova del pregiuidizio giuridicamente apprezzabile vista la esiguita dello spazio informatico occupato dalle email in parole che si quantificano in circa 5-6 per ogni singolo iscritto all’associazione.

Vengono cosi chiariti i termini dell’indagine ermeneutica ed confini di applicazione della normativa testè citata al caso concreto.

Avv. Egidio Oronzo