Una storia che merita di essere raccontata e che può fungere da monito per tutti.
Un lavoratore INPS adiva il Tribunale al fine di veder annullate le dimissioni rassegnate, in quanto poste in essere in condizioni di turbamento psichico tale da impedire la libera e cosciente autodeterminazione.
Il giudice di primo grado rigettava la domanda.
Proposto appello, la Corte di merito accoglieva la domanda, annullava le dimissioni, e condannava l’Inps a riammettere in servizio il dipendente corrispondendogli le retribuzioni non percepite dalla data del ricorso di primo grado.
Avverso tale pronuncia l’INPS ha proposto ricorso per Cassazione.
Vale la pena osservare che, con il ricorso proposto, l’INPS non solleva contestazioni circa l’accertato stato di incapacità del lavoratore, tale da inficiare il libero consenso e determinazioni nelle dimissioni; bensì contesta la decorrenza delle retribuzioni dovute in conseguenza del ripristino del rapporto di lavoro. Secondo l’ente ricorrente, le retribuzioni dovevano essere riconosciute unicamente dalla sentenza di annullamento delle dimissioni; posto che, una volta accertata l’assenza di malafede da parte del datore di lavoro e, di contro, l’assenza di responsabilità del lavoratore nella sua determinazione di dimettersi, non poteva essere attribuita all’ente datore di lavoro alcuna responsabilità dell’atto annullato e di conseguenza non poteva essere accollato l’onere a questi di pagamento delle retribuzioni fin dal radicamento del processo.
Ed invero, esiste un principio (consolidato sul punto) secondo cui nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato, le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle dimissioni, in quanto il principio secondo cui l’annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, salvo espressa previsione di legge, non sono dovute in mancanza della prestazione lavorativa.
Infatti, non bisogna dimenticare la natura sinallagmatica del rapporto, la quale richiede, ai fini dell’adempimento dell’obbligazione retribuiva, la messa a disposizione della prestazione lavorativa.
In sintesi l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell’attività lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla legge.
Da tutto ciò deriva che, nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni, le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità del recesso.
La sentenza impugnata è stata dunque cassata dalla Corte, che, decidendo nel merito la controversia, con sentenza del 06 settembre 2018 n.21701, ha confermato la nullità delle dimissioni e condannato l’INPS al risarcimento del danno patito dal lavoratore confuso, nella misura pari alle retribuzioni a far data dalla sentenza di annullamento delle dimissioni.
Egidio Oronzo
Avvocato