Cosa succede se allo scadere dei termini annuali stabiliti dal codice civile per la rendicontazione contabile, l’amministratore di condominio ha trattenuto e non restituito le somme detenute per conto di ogni condomino?
Il dictum della Cassazione esula ogni dubbio.
La mancata restituzione, con la volontà di far proprie tali somme di danaro costituisce tipica ipotesi di appropriazione indebita aggravata, connotata da significativi indici di gravità, sotto il profilo soggettivo che oggettivo, trattandosi di fatti commessi arrecando danni ad una pluralità di condomini ed abusando dell’attività professionale in favore degli stessi.
Nella questio iuris oggetto della sentenza del 06 febbraio 2018, n.21011 della Suprema Corte la condotta appropriativa concerneva la rendicontazione di numerose annualità e pertanto si poneva un problema di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, poiché i fatti erano risalenti ad una data anteriore al 2010.
E’ vero, infatti, che, per il disposto degli articoli 1135, 1129, 1138 c.c., poiché la carica di amministratore cessa ogni anno, dovrebbe ritenersi che sia onere dell’amministratore, nello stesso termine, dare il conto della gestione e di restituire le somme detenute per conto del condominio. Pertanto, il termine di prescrizione decorrerebbe ogni anno, in coincidenza con la data prevista per la rendicontazione annuale, sicché i fatti relativi ai periodi anteriori a sette anni e mezzo prima (termine di prescrizione massimo), devono ritenersi estinti per intervenuta prescrizione.
Quindi, posto che l’art. 1129 c.c. prevede che «alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini», integrerà il reato di appropriazione indebita la condotta dell’amministratore che rifiuti o ritardi la consegna della documentazione contabile e delle somme detenute, allorquando tale condotta sia finalizzata al conseguimento di profitto ingiusto.
Prima di analizzare nel dettaglio la questione, occorre in premessa precisare che il legislatore, allo scopo di ridurre la possibilità pratica di realizzazione di questi fatti di appropriazione, ha introdotto alcune disposizioni in tema di trasparenza e di confusione di patrimoni.
Infatti, la mancanza di specifiche e coerenti indicazioni legislative circa la necessità di far transitare le somme di spettanza dell’ente condominio su di un apposito conto corrente, portava ad una possibile confusione tra il patrimonio dell’amministratore e quello del singolo condominio, come anche tra le risorse dei vari condomini gestiti dallo stesso amministratore.
A queste incongruenze ha posto rimedio proprio l’art. 1129 c.c., il quale dispone che l’amministratore di condominio è obbligato a far transitare su di un apposito conto corrente bancario o postale, intestato al condominio, tutte le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle erogate a qualsiasi titolo per conto del condominio, e che ciascun condomino può prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica, in modo da effettuare i dovuti controlli.
La Corte di cassazione è intervenuta sulla questione ribadendo la natura istantanea del delitto di appropriazione indebita, che si consuma con la prima condotta appropriativa, coincidente con il momento in cui l’amministratore di condominio è obbligato a restituire le somme detenute per conto di ogni condomino.
E’ avallata, quindi, la tesi che vede consumare il reato di appropriazione indebita dell’amministratore di condominio con cadenza annuale.
La mancata restituzione delle somme non spese, accompagnata dal dolo specifico di realizzare un ingiusto profitto, configura e perfeziona la fattispecie di reato, a nulla rilevando il momento in cui sia stato scoperto l’ammanco, essendo onere dei condomini accedere e controllare la documentazione contabile, e così venire a conoscenza dell’ammanco.
Vale la pena citare anche un indirizzo dottrinario minoritario secondo il quale la consumazione del delitto coincide con il momento in cui l’agente consegue il profitto (peraltro, da intendersi in senso non strettamente economico), e non con il compimento del fatto appropriativo. Infatti, far coincidere la consumazione con la condotta di appropriazione rischierebbe di rendere inafferrabile e indeterminabile tale momento soprattutto nei casi di condotta negativa di mancata restituzione, che sarebbe così caratterizzato unicamente da un elemento psichico, cioè dall’intenzione di servirsi della cosa come se fosse propria.
A tale concezione si può, però, obiettare che il profitto è soltanto una nota dell’elemento psicologico, il fine cui la volontà deve dirigersi, e non un elemento costitutivo del reato. Pertanto, la consumazione del reato non può farsi dipendere dal mutamento dell’animus del possessore, posto che un fatto meramente psichico non può mai, di per sé, produrre effetti giuridici, essendo sempre necessario che si rifletta in comportamenti esteriori.
In conclusione, la giurisprudenza prevalente concorda con la dottrina maggioritaria e individua la consumazione del delitto nell’atto di disposizione uti dominus, posto in essere dall’agente con la volontà di tenere la cosa come propria, che può realizzarsi con il dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso ovvero mediante il rifiuto ingiustificato della restituzione, perché in entrambe le ipotesi appaia egualmente manifesta la volontà di affermare il dominio sulla cosa posseduta.
Il delitto di appropriazione indebita si consuma pertanto nel momento e nel luogo in cui l’agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario.
Ci si limita ad osservare che esso non può farsi coincidere, sic et simpliciter, con quello della scadenza del termine per la restituzione senza alcuna indagine concernente l’animus, in quanto la mancata restituzione colposa non integra il delitto.
Solo il rifiuto ingiustificato della restituzione della cosa, dopo la scadenza del termine che ne legittima il possesso che renda manifesta la volontà del possessore di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa un ingiusto profitto, determina la condotta omissiva di illiceità penale.
Egidio Oronzo
Avvocato