Qual è la risposta dell’ordinamento a fronte di una persona che, a causa dell’infermità mentale che l’affligge, non sia in grado di prestare il prescritto giuramento indispensabile per ottenere la cittadinanza?
Con la sentenza n. 258 del 2017, la Corte Costituzionale ha fornito la soluzione ad un quesito di non poco conto.
Prima capiamo qual è il quadro normativo di sfondo.
In base alle regole, l’art. 9, comma 1, della legge 91 del 1992 prevede che la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica (sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministero dell’interno), allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
Al contempo l’art. 10 della medesima legge dispone che il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato, e l’art. 23, comma 1, della legge n. 91 del 1992, chiarisce che le dichiarazioni per l’acquisto della cittadinanza e la prestazione del giuramento previste dalla presente legge, sono rese all’ufficiale dello stato civile del comune dove il dichiarante risiede, o intende stabilire la propria residenza, ovvero in caso di residenza all’estero, davanti all’autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza.
Dal contesto normativo emerge, quindi, come il giuramento sia impegno morale e un dichiarazione di adesione consapevole alla comunità statuale, quale luogo di esercizio di diritti e adempimento di doveri.
A monte della sentenza in analisi, un Giudice Tutelare del Tribunale di Modena chiamato a decidere sull’istanza di un amministratore di sostegno nonché padre di una ragazza che, pur soddisfacendo tutte le condizioni per essere cittadina italiana, non era in grado di prestare il giuramento in quanto affetta da “epilessia parziale con secondaria generalizzazione e associato ritardo mentale grave in pachigiria focale”.
Il padre, dopo aver precisato che la ragazza non sa né leggere né scrivere, chiedeva di trascrivere comunque il decreto di concessione della cittadinanza nei registri di stato civile. Il Giudice adito, ha sospeso il procedimento in corso e ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunciasse sulla legittimità della legislazione in materia, lesiva dei principi fondamentali di inviolabilità dei diritti dell’uomo (art. 2 Cost.) e di uguaglianza (art. 3 Cost.), a causa della disparità di trattamento ai danni dei cittadini affetti da disabilità e che, per effetto della mancata prestazione del giuramento, non possono acquistare lo status civitatis.
Invero il tema non è nuovo poiché numerose sono le pronunce giurisprudenziali in materia: per esempio il Tribunale di Bologna ha affermato la legittimazione di un amministratore di sostegno a proporre istanza per l’incapace.
Anche la questione relativa alla legittimazione dell’amministratore di sostegno a proporre istanza di concessione della cittadinanza in nome e per conto del beneficiario non è di certo nuova ma si iscrive in una serie di pronunce giurisprudenziali tese a definire l’estensione dei poteri della figura istituita ad opera della legge l. 9 gennaio 2004, n. 6.
Il fondamento è sempre lo stesso e si fonda si fonda sul rilievo per il quale il potere- dovere di cura della persona del beneficiario in capo all’amministratore di sostegno, debba essere riconosciuto a mente di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui al comma 4 dell’art. 405 c.c. (che prevede, tra i provvedimenti urgenti da assumere nell’interesse della persona interessata, quelli relativi alla sua “cura”), al comma 5, n. 6, del medesimo articolo (ove si prescrive l’obbligo, per l’amministratore di sostegno, di riferire periodicamente al giudice tutelare circa le “condizioni di vita personale e sociale” del beneficiario), ed all’art. 408 c.c. (che stabilisce che la scelta dell’amministratore avvenga “con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi del beneficiario”).
Perché, allora, il Giudice emiliano ha preferito rimettere la questione alla Corte Costituzionale? Poiché le soluzioni interpretative sono in realtà, piuttosto fragili.
Quando ci si trova di fronte ad un atto personalissimo, la legittimazione del tutore non può essere giustificata nell’assenza di una norma specifica. Invece di aggirare l’ostacolo, si sarebbe dovuto sostenere piuttosto l’esistenza di una “lacuna normativa” nella parte in cui non prevede deroghe all’obbligo della prestazione del giuramento, quale condizione per l’acquisizione della cittadinanza italiana, in presenza di condizioni personali di infermità mentale in cui versi il futuro cittadino, impeditive del compimento dell’atto formale.
La Corte Costituzionale, supera rapidamente le questioni interpretative rilevando come l’acquisizione dello status di cittadino risulti irragionevolmente interdetta nel caso in cui la persona, a causa di una grave disabilità psichica, non sia in grado di prestare il giuramento di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
Il ragionamento svolto dal giudice costituzionale è semplice e muove le mosse dall’art. 54, comma 1 Cost. e da una lettura congiunta dell’art. 2 Cost. (a norma del quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo) e dell’art. 3 Cost. che, a protezione della stessa inviolabilità dei diritti, garantisce il principio di uguaglianza a prescindere dalle “condizioni personali”, affidando altresì alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la libertà e l’uguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona .
E fra le condizioni personali che limitano la “pari dignità sociale”, si colloca indubbiamente la condizione di disabilità, tutelata dall’art. 38 Cost. che riconosce al primo comma il diritto all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro, mentre al terzo comma riconosce agli “inabili” e ai “minorati” il diritto all’educazione e alla formazione professionale. Questi principi sono stati attuati dalla legge n.104/1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili), che disegna il fondamentale quadro normativo in materia di disabilità, volto non solo a prestare assistenza, ma anche a favorire l’integrazione sociale del disabile.
È nel binario di questa impostazione valoriale che il giudice costituzionale giunge a pronunciare una sentenza “additiva di regola”, con la quale precisa che seppur l’esonero dal giuramento non sarà automatico, richiederà in ogni caso un’indagine sul tipo di incapacità, rilevando a tal fine l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia, non rilevando la precipua condizione giuridica in cui versa il disabile.
La pronuncia si inserisce entro una parabola innovativa circa la considerazione della persona malata che trova il suo richiamo fondazionale nella Carta costituzionale in cui sono presenti valori e principi personalistici quali quello di dignità, eguaglianza e tutela dei diritti inviolabili dell’uomo.
Emerge in particolare – e non è da sottovalutare – come l’attenzione integrale della personalità, prevalga sui rigidi schemi codicistici e formali, per cui il giuramento “impossibile” per il disabile è una forma di emarginazione sociale che irragionevolmente esclude il portatore di gravi disabilità dal godimento della cittadinanza, intesa quale condizione generale di appartenenza ad una comunità nazionale.
Un traguardo decisamente importante.
Egidio Oronzo
Avvocato